IMPERFECT DANCERS
MADAME BUTTERFLY’SON di Stefano Mecenate Madame Butterfly rappresenta certamente, nel panorama delle produzioni pucciniane, un momento particolarmente significativo della esperienza artistica ed umana del grande compositore lucchese. Un’opera alla quale Puccini è stato particolarmente affezionato nonostante il clamoroso “fiasco” della prima scaligera e nella quale ha trasfuso, con una straordinaria dolcezza, una parte della propria identità profonda, quella che, pudicamente, ha sempre tenuto lontano dalla sua immagine pubblica e mondana. La vicenda della piccola Cio Cio San è nota a tutti perché debba essere riportata per intero; vale la pena, però, soffermarsi sull’epilogo perché da questo parte questa storia che andrete ad ammirare in questa nuova coreografia. Tradita e delusa da Pinkerton che pretende da lei anche il bambino nato dalla loro unione, Butterfly abbandona il “sogno americano” per ritrovare nella propria “giapponesità” il coraggio di una scelta che le restituisca la dignità ed il rispetto. “Con onor muore chi non può serbar vita con onore” reca inciso il pugnale con il quale suo padre, obbedendo agli ordini del Mikado, si è dato la morte. E questo onore, Butterfly intende ritrovare dopo aver vissuto, assolutamente in modo unilaterale, il sogno di un amore impossibile tra una geisha e un ufficiale della marina militare statunitense. Suo figlio, tre anni, seguirà il padre oltre l’oceano, in quella patria lontana dove lei sognava di andare un giorno: al suo fianco non ci sarà lei, ma un’altra donna, la “vera sposa americana” che Pinkerton si è trovata dopo aver lasciato il porto di Nagasaki. Lei, con i suoi sogni, le sue delusioni, la sua disperazione, resterà lì regalandosi l’unica libertà possibile, quella della morte. Accanto a lei, come sempre, la fedele Suzuki che ne ha condiviso fin dall’inizio le sorti legandosi al destino di lei fino a quell’estremo momento. Cosa ne è stato di quel bambino sottratto alla cultura e alle tradizioni orientali per trapiantarlo in un’arrogante nazione che mostra i muscoli e declama il credo del benessere e dell’arrivismo? Come ha vissuto i suoi primi mesi in quel mondo così diverso, accanto a persone mai viste, ad usi sconosciuti, a regole di vita incomprensibili? E gli anni successivi? Kate gli è stata madre o matrigna e Pinkerton ha avuto tempo e voglia di seguirlo o la carriera lo ha condotto lontano anche da quella famiglia? E del suo lontano passato, cosa gli è rimasto? Quali evanescenti immagini di quel volto materno che in un disperato gesto d’amore Butterfly gli ha mostrato affinché non lo dimenticasse, sono rimaste in lui? E cosa di quei luoghi e delle persone che li hanno popolati in quel troppo breve squarcio di vita? Il balletto Butterfly’s son parte da qui, da quel bambino divenuto ormai un ragazzo che torna a Nagasaki guidato dal bisogno di ricomporre un mosaico a cui mancano troppi pezzi e del quale vuole comprendere una volta per tutte il disegno. A guidarlo un carillon trovato per caso tra le cose dismesse del padre e all’interno di esso una lettera scritta in un inglese stentato ed una calligrafia approssimata nella quale un’ingenua ragazza, proclamando il suo incondizionato amore per il padre, chiedeva se i pettirossi avessero fatto il nido anche in America e se quindi prossima sarebbe stata la sua venuta in quella casetta da troppo tempo priva di lui. Più che la reticenza della madre, lo aveva colpito l’insofferenza del padre a dargli risposte alla sua legittima curiosità; sì aveva avuto una madre in Giappone ma era morta e lui portato in America perché crescesse sicuro e assistito. Di quella madre, al di là di quelle scarne parole, una immagine sbiadita contenuta in una di quelle medaglie destinate a conservare ritratti. Null’altro. Troppo poco per mettere a tacere il suo cuore animato da un’insolita ansia di conoscere qualcosa in più di quella vicenda che lo vedeva ignaro protagonista di una morte a lui oscura ma stranamente dolorosa. Il viaggio fino al porto di Nagasaki una lunga occasione per riflettere sulla sua vita, per leggere quanto più possibile su quella gente lontana e sconosciuta, per domandarsi il perché di quello strano silenzio, di quelle reticenze, di quell’insofferenza; poi il Consolato, prima tappa di un labirintico cammino che lo condurrà, dopo alterne vicende, ad incontrare Suzuki. Vecchia e malata, la donna non fatica a riconoscere in quegli occhi e in quei capelli dorati il bambino che aveva tenuto tante volte in braccio e con il quale aveva giocato con amorevole dedizione, la stessa che aveva avuto per quella assurda, straordinaria madre che per tre anni non aveva mai smesso di spiare l’orizzonte in attesa del ritorno di uno yankee senza cuore che aveva giocato coi suoi sentimenti. Difficile rispondere all’incalzare delle domande quando ci si accorge che tutto gli è stato celato, difficile trovare le parole per descrivere cosa era stato il mondo di sua madre, le vicende della sua famiglia, prima ricca e poi caduta in disgrazia a causa dei malumori del Mikado verso il padre di lei, di quel bell’ufficiale che l’aveva “comprata”, come accadeva di frequente in quegli anni, per alleviare la solitudine dei mesi da trascorre lontano dall’America, facendole credere che con quel matrimonio ella sarebbe diventata davvero la sua “mogliettina”… Inutili erano state le raccomandazioni del Console Sharpless: “Sarebbe un gran peccato le lievi ali strappar e desolar forse un credulo cuore”; “Quella divina mite vocina non dovrebbe dar note di dolor”; “E se a voi sembran scede il patto e la sua fede… badate! Ella ci crede”. Inutili anche le parole di Butterfly: ”Io seguo il mio destino e, piena d’umiltà, al Dio del signor Pinkerton m’inchino. E’ il mio destino. Nella stessa chiesetta in ginocchio con voi pregherò lo stesso Dio. E per farvi contento potrò forse obliar la gente mia. Amore mio”; “Adesso voi siete per me l’occhio del firmamento…”. Per Pinkerton valeva una sola regola: “Amore o grillo dir non saprei. Certo costei m’ha con le ingenue arti invescato (….) qual farfalletta svolazza e posa con tal grazietta silenziosa, che di rincorrerla furor m’assale se pure infrangerne dovessi l’ale”; “la vita ei (lo Yankee vagabondo, ndt) non appaga se non fa suo tesor i fiori d’ogni plaga…” fino all’esplicito: “ (bevo alla vostra famiglia lontana – Sharpless) …e al giorno in cui mi sposerò con vere nozze a una vera sposa americana” Come raccontargli del coraggio che aveva auto quella fragile farfalla quindicenne quando aveva affrontato prima lo sdegno dello zio Bonzo e poi il ripudio di tutti i suoi parenti, “sola e rinnegata, rinnegata… e felice” e come aveva vissuto, dopo il troppo breve periodo di convivenza con Pinkerton, quella solitudine fatta di attesa e di fede incrollabile nel suo ritorno. «Tutto questo avverrà, te lo prometto. Tieni la tua paura, io con sicura fede..l’aspetto» le aveva detto Butterfly in uno di quei giorni in cui sperare diventava difficile. Per quella sicura fede nel ritorno di suo marito, aveva respinto la corte del ricco Yamadori, per quella, quando anche il saggio Sharpless l’aveva invitata a ricredersi sulla possibilità di un positivo epilogo della sua storia, lo aveva messo alla porta non prima, però, di avergli mostrato quel bimbo dagli “occhi azzurrini e dai riccioli d’oro schietto”. Ed ora quel fanciullo diventato ormai un uomo, le chiedeva di raccontargli tutto di sua madre e del padre… Tutto! Cosa avrebbe dovuto dirgli? Per anni, troppi, dopo la morte della sua piccola signora aveva covato un sordo rancore per quell’uomo che, incurante del dolore che avrebbe provocato, aveva portato via tutto a colei che tutto di sé aveva dedicato a lui! Poi, sul declino della vita, quel rancore aveva lasciato spazio ad un dolore per entrambi: l’una vittima dei suoi sogni, l’altro di appartenere ad un mondo troppo lontano da quello in cui si era trovato a vivere e di essere troppo superficiale ed egoista per cercare di capirlo. Ma quel ragazzo aveva diritto a conoscere la verità, anche se dentro la verità stanno tante verità composite e talvolta antitetiche che possono disorientare e annichilire. Del resto, doveva assolvere ad una promessa fatta alla sua signora prima che spirasse: «…Se un giorno ti chiederà di me digli che l’ho amato più di me stessa e che avrei voluto per lui una vita felice. Non so quale strada prenderà né se mai tornerà qui, ma se lo facesse fai che non se ne vada senza che queste parole, insieme al mio desiderio che impari a conoscere la nostra cultura e il nostro mondo, raggiungano il suo cuore. Solo allora sarò davvero serena». Ricordava bene cosa Butterfly aveva detto al suo Pinkerton nella notte del suo matrimonio: “…vogliatemi bene, un bene piccolino, un bene da bambino quale a me si conviene. Vogliatemi bene. Noi siamo gente avvezza alle piccole cose, umili e silenziose, ad una tenerezza sfiorante e pur profonda come il ciel, come l’onda del mare…” Lo avrebbe compreso quel ragazzo il significato profondo di quelle parole? Avrebbe colto l’anima di quel popolo, quella di sua madre, di colei che un attimo prima di lasciarlo per sempre gli aveva gridato piena d’amore: “Amore, amore mio, fiori di giglio e di risa. Non saperlo mai.. per te, per i tuoi puri occhi, muor Butterfly.. Perché tu posa andar di là da mare senza che ti rimorda ai di maturi il materno abbandono. O a me, sceso dal trono, dall’alto Paradiso, guarda bel fiso, fiso, di tua madre la faccia che te’n resti una traccia. Guarda ben! Amore, addio, addio! Piccolo amore…” Quale dura prova per lei restituire a quel ragazzo i resti di una storia come quella di sua madre senza che l’odio, il rancore, la rabbia ne alterino il senso, quale fatica centellinare le parole affinché l’immagine dell’una non copra per sempre l’altra, quella paterna, che era stata certamente riferimento e rifugio in quegli anni! E più ancora, quale travaglio nel vedere lo sguardo di lui cambiare al fluire della narrazione e il suo adombrarsi, l’accigliarsi dubbioso, la stizza e la ribellione verso quei fatti che disegnano scenari funesti ed adombrano sinistramente rapporti domestici… Un caleidoscopio di immagini ruotano nella mente del giovane, un nugolo di pensieri l’affolla, mentre quelle parole si affollano e si sovrappongano come incubi…. Una notte senza sonno farà da argine a quelle parole e a quei racconti: una notte popolata di angosce e di sensazioni contrastanti, nella quale ogni pensiero è possibile e nessuna decisione è quella giusta. “Dov’è mia madre? Perché non viene a confortarmi, a stringermi a sé, a restituirmi quell’abbraccio che tanti anni prima aveva segnato il nostro definitivo distacco? E che fa mio padre, perché non si difende, non si scagiona da quelle accuse che lo dipingono come l’ultimo degli egoisti, l’ultimo degli uomini…. Devo forse allontanarmi da questi luoghi, da quelle parole, da quei ricordi che ora oscurano i miei giorni trascorsi in America? Devo ignorare ciò che mi è stato raccontato e pensare che quella donna è solo una pazza visionaria? No, forse non è così. Forse ha ragione quella vecchia incartapecorita dalla voce lamentosa: forse non ci sono stati vinti e vincitori; entrambi hanno perso qualcosa e forse spetta a me ricomporre quella frattura diversamente incolmabile. Io che sono stato, parafrasando le parole che Sharpless ha detto a mia madre, “la causa innocente di ogni vostra sciagura” , io forse devo ritrovare il modo di riunire le due metà e ricomporre l’unità perché possa riconciliarsi ciò che imperscrutabili disegni del Destino ha trasformato in tragedia”. Nella brumosa alba del nuovo giorno c’è solo il tempo di un ultimo scambio di battute tra il giovane e la vecchia; parole misurate e amorevoli che accompagnano un gesto “sacrale”: la consegna del pugnale che ha causato la morte della madre. In ciò che vi è scritto c’è, forse, anche la strada per ricominciare: se la ricerca di ritrovare l’onore perduto ha causato la morte della madre, il difendere quell’onore nel rispetto della tradizione e della cultura di quel popolo anche nell’America di suo padre potrà essere per lui la nuova strada maestra. Suzuki lo guarda allontanarsi tenendo stretto a sé quell’oggetto di dolore e di morte: adesso finalmente il suo cammino è terminato; portando a compimento la promessa fatta alla sua signora, potrà finalmente raggiungerla e tornare a cantare con lei: “tutta la primavera voglio che olezzi qui… seminiamo april.. Tutta la primavera, tutta tutta. Gigli? Viole? (…) gettiamo a mani piene mammole e tuberose, corolle di verbene,petali d’ogni fior! Corolle di verbene, petali d’ogni fior!” e a ritrovare quel sorriso che, ahimè, per troppo poco tempo ha colorato il suo pallido volto regalandole il sapore inestimabile della felicità.
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